mercoledì 23 novembre 2016

RACCONTO: LA PANCHINA


Sono le sei del pomeriggio. Un tratto di lungadige isolato e ombroso.
Il vento della Verona autunnale piega le fronde degli alberi.
Decine di panchine in ferro sono schierate con innaturale simmetria.
Tutte libere, tratte una. L’uomo che la occupa indossa un completo grigio.
Il suo sguardo è fisso, nella direzione del fiume. La poca luce rimbalza sull’acqua che scorre dipingendo sensazioni nell’aria.
Il taglio di capelli, da regolare, rende il viso dell’uomo ancor più corrucciato di quanto non lo sia di per sé.
È seduto su quella panchina da quasi due ore. I suoi pensieri vagano senza meta. O meglio una meta c’è l’avrebbero, ma lui non vuole raggiungerla. Troppo dolore, troppe illusioni, troppe aspettative irrealizzate. Nelle due ore in cui è stato lì seduto non ha visto o sentito anima viva. Nessuna persona, nessun cane, nessun gatto randagio, nessun topo, nemmeno un piccione infreddolito.
Soltanto nelle ultime due ore ha pensato al suicidio 3 volte. Ma non ne avrebbe mai avuto il coraggio. La sua voglia di vivere è troppo forte.
Si passa la mano sulla fronte gelata e si sistema, come può, i capelli selvaggi.
Ad un certo punto sente dei passi lenti e costanti.
Non ha né la forza né la voglia di alzare lo sguardo per vedere a chi appartengono le suole che hanno prodotto quei rumori.
I passi si fanno sempre più vicini e la figura a lui misteriosa gli si siede accanto.
Dopo pochi secondo gli fa:
-“Amico c’è l’avresti una sigaretta?”.
Senza neppure alzare lo sguardo l’uomo gli risponde:
-“Mi dispiace, non fumo”.
Passano alcuni secondi e il tizio incalza:
-“Non avresti qualche moneta da darmi?”
Solo allora si decide ad alzare la testa. Alla sua sinistra è seduto un uomo sui cinquanta dall’aria trasandata. La barba, sebbene non lunghissima, è malcurata ed emana un odore forte.
La scarpa destra non ha niente a che vedere con quella sinistra, non solo sono modelli diversi, ma probabilmente anche di misure differenti.
Il cappotto marrone invece sembra di ottima fattura, sul bavero sono anche ricamate delle iniziali, F.G.
I due si guardano negli occhi per almeno 20 secondi, un eternità.
L’uomo a quel punto risponde:
-“Ti do 100€ se mi racconti la tua storia. Anzi una storia qualsiasi, basta che te la inventi e che sia interessante”.
Il senzatetto ci pensa un attimo su. Si guarda in giro per controllare che non sia uno scherzo.
Non vedendo nessuno in giro e guardando che il tipo non scherza, accetta e gli dice sorridendo:
-“Bene amico, mettiti comodo, ne conosco una buona.”

Siamo a San Francisco, California.
Un ragazzo pakistano sta lottando nel traffico per effettuare una delle prima consegne della giornata. Lavora per uno dei più importanti corrieri postali degli Stati Uniti. La paga è ridicola, ma sempre meglio che morire di fame.
Arrivato all’indirizzo suona il citofono. Risponde una voce femminile.
Entra nel portone e sale due piani di scale prima di recapitare la merce alla moglie del protagonista di questa storia.
Hellen firma con il dito sullo smartphone del pakistano e rientra in casa.
Hellen si sta preparando per uscire e appoggia il pacco, ancora chiuso, sul tavolo del salotto.
Jimmy, il vero protagonista della storia, si sta facendo la barba.
Finisce di prepararsi ed esce di casa con i due figli piccoli. Come tutte le mattine li accompagna a scuola prima di andare in ufficio. Sono nel SUV di Jimmy  imbottigliati nel traffico mattutino della Silicon Valley. Jimmy sta ascoltando il notiziario alla radio.
Quando Susan, la figlia di 13 anni, annoiata cambia frequenza e si sintonizza su un'altra stazione. Jimmy non se la prende, Susan è la sua preferita e, a dire il vero, si sta accorgendo di viziarla un po’ troppo.
Tra una hit commerciale e un'altra passano i soliti spot pubblicitari: dentifricio, auto sportiva, rasoio elettrico, biscotti,…Il tutto condito con musichette e jingle accattivanti.
Finalmente arriva davanti alla scuola dei figli e li saluta.
Continua la sua routine quotidiana dirigendosi verso il suo ufficio.
Parcheggia al solito posto, esattamente sotto ad un cartellone pubblicitario. Deve essere nuovo perché non si ricorda di averlo già visto.
Prende l’ascensore e arrivato al piano si siede dietro la scrivania che conosce bene.
Il suo è un lavoro molto abitudinario, che consiste nel valutare pratiche assicurative e inoltrarle ad un altro ufficio. Un piccolo anello di una gigantesca catena che muove gli ingranaggi della società per cui lavora. Queste erano state le parole usate dal suo superiore, dieci anni prima quando lo aveva accolto in quel mastodontico stanzone grigio.
L’uso dei social networks in orario d’ufficio non è consentito, infatti nel browser dei computer aziendali è stato inserito un blocco apposta. Jimmy deve usare internet per consultare le linee guida e i precedenti assicurativi, in modo da sapere come etichettare ogni pratica.
La cosa che infastidisce di più Jimmy è la presenza di banner pubblicitari nelle pagine che deve consultare. L’ha fatto presente al suo superiore diverse volta, ma non ha ottenuto nessun risultato.
Durante la pausa pranzo consuma un’insalata veloce al tavolo con alcuni suoi colleghi. Mentre parlano pensa ad altro, non pone molta attenzione ai loro discorsi.
La giornata di lavoro continua e si conclude come al solito.
A Jimmy tocca rituffarsi nel traffico selvaggio delle 18. Mentre è bloccato in un ingorgo apre l’app di uno shop online e da un’occhiata alle offerte del giorno.
Il suo occhio cade distratto su di un nuovo modello di rasoio elettrico scontato del 40%.
Gli sembra un’ottima occasione e lo compra con un solo click.
Arriva eroicamente a casa e si distende sul divano in pelle che deve ancora finire di pagare.
Vede il pacco consegnato quella mattina che troneggia sul tavolo in vetro.
Si alza stancamente e lo apre.
Il contenuto lo lascia basito. Nella scatola di cartone, circondato da carta per imballaggi, si trova il rasoio elettrico che ha appena comprato.
Jimmy è confuso.
Molte idee passano per la sua mente. La prima ipotesi è che l’azienda da cui ha comprato il rasoio stia sperimentando un nuovo metodo di consegna a domicilio ultra veloce.
Allora va dalla moglie è le chiede quando è arrivato il pacco che si trova in salotto.
Quando lei gli risponde che è lì da quella mattina, Jimmy ripiomba nella paranoia.
L’unica cosa che gli viene in mente di fare è ricapitolare la sua giornata mentalmente.
Pensa e ripensa alle azioni che l’hanno portato a comprare quel rasoio.
Ci prova ma non gli viene in mente niente. Come per magia a un certo punto della giornata è nato in lui una insaziabile necessità di possedere quel rasoio.
Poi inizia a capire. Alla radio quella mattina in macchina, quando Susan ha cambiato stazione, ha sentito lo spot con il jingle accattivante.
Poi nel parcheggio aziendale ha notato il cartello proprio sopra la sua auto, e fatalità si trattava proprio di quel rasoio. Si ricorda anche vagamente di aver notato il marchio in uno degli odiatissimi banner presenti sul browser del computer da lavoro.
Ma gli manca qualcosa, è come se avesse la percezione che qualcuno a lui vicino gli abbia consigliato l’acquisto. È allora che ricorda l’argomento della conversazione dei suoi colleghi in pausa pranzo. Quella conversazione che neanche stava ascoltando.
Eppure quel seme era cresciuto nella sua testa fino a produrre un desiderio spasmodico per quel prodotto.
Questo spiegava il perché Jimmy avesse acquistato quel rasoio, ma non il motivo per il quale quello stesso rasoio fosse arrivato a casa sua già quella mattina.
Com’è possibile che mi consegnino un prodotto prima ancora che io abbia pensato di comprarlo?
Questi pensieri lo attanagliano per tutta la notte, che ovviamente passa senza che Jimmy riesca a chiudere occhio.
Continua a trascorrere la sua monotona vita ma adesso Jimmy è attento a tutti i dettagli che lo circondano.
Ad un certo punto sembra essere convinto di vivere in uno di quei romanzi distopici che ama tanto.
Ma inizia a dubitare del suo stesso amore per la fantascienza, se anche quella sua passione fosse dettata da un lavaggio del cervello?
Se il suo stesso stile di vita fosse un algoritmo prestabilito e modellabile attraverso perverse azioni di marketing subliminali?
Se in tutta la sua esistenza non avesse mai fatto una scelta che fosse veramente sua?
Se ci fosse un unico burattinaio che muove i fili e condiziona le vite di tutti i poveri stolti come Jimmy?
E se l’idea stessa del burattinaio fosse stata instillata nella mente di Jimmy o di chi ti sta raccontando questa storia?
Dopo una settimana Jimmy non c’è la fa più, ogni frase che qualcuno gli rivolge, ogni fatto che gli accade, ogni pubblicità che vede gli provoca tremendi attacchi di panico.
Un giorno mentre sta tornando a casa dal lavoro e sta percorrendo il Golden Gate Bridge, accosta, scavalca la balaustra e si butta.
Con un unico ultimo pensiero nella testa: “Mi hanno condizionato anche nel modo di suicidarmi”.


L’uomo è rimasto scosso dal racconto del senzatetto.
Non sa bene come interpretarla. Sicuramente è infarcita di stereotipi e critica al consumismo e al capitalismo in generale. Ma il modo in cui il senzatetto l’ha raccontata lo ha colpito.
Lo inquieta il particolare tempismo, infatti è strano che proprio in un giorno in cui pensa più volte al suicidio, arrivi uno sconosciuto a raccontargli una storia che si risolve proprio con questo gesto categorico.
L’uomo consegna la banconota da 100 al barbone e gli chiede preoccupato:
-“Perché mi hai raccontato proprio questa storia?”
Il senzatetto mette intasca il denaro e mentre si allontana gli dice:
-“Dovresti averlo capito”.


Cantoni Marco

lunedì 19 settembre 2016

RACCONTO: METODO GIULIA


Sono seduto su una panchina metallica alla periferia di una piazzetta isolata.
Cerco riparo dal sole, inutilmente. 
L’ulivo che dovrebbe farmi ombra ha deciso di diventare ebreo e di prendersi il sabato come giorno libero.
Alla mia sinistra passa un’anziana coppia.
Lui porta la spesa nella retina con la mano destra. Hanno il passo svelto.
Parlano del fatto del giorno, o piuttosto di quello che era ieri il fatto del giorno.
La vignetta satirica della rivista Charlie Hebdo il cui soggetto è il recente terremoto che ha colpito il centro Italia.
Un anno fa eravamo tutti Charlie, ma dopo questo sgarbo la pancia del popolo ha deciso che, alla fin fine, si sono meritati di essere uccisi dai terroristi.
Sulla panchina al centro della piazza, vicino alla strana scultura che troneggia indisturbata, ci sono due ragazze.
Non so dare l’età alle persone. Credo siano più giovani di me, oppure semplicemente più spensierate. Impugnano entrambe il loro smartphone.
Una è bionda e, logicamente, l’altra è mora.
Ma la mia attenzione viene rapita da una mamma che fa pisciare la figlia piccola nell’aiuola in mezzo alla piazza affollata. 
La solleva e le tiene le gambe aperte, mentre la piccolina espleta il compito.
Finita la minzione, come se fosse la cosa più normale del mondo, la mette a terra, le tira su le mutandine, le riabbassa il vestitino e mano nella mano si incamminano in chiesa per la messa.
Questa immagine potrebbe racchiudere integralmente la cultura italiana.
Come mischiare sapientemente sacro e profano.
Le ragazze di prima sono sparite. Al loro posto ce ne sono tre diverse.
Questa volta sono tutte more e il cellulare è uno solo. Stanno guardando un video, probabilmente su youtube.
Sembra divertente dalle loro facce.
Guardandole meglio sono più piccole di quelle di prima, troppo piccole.
Penso alla galera e a quanto non voglia andarci e quindi sposto lo sguardo altrove.
Passa una volante della polizia, ultimamente sorvegliano il centro. Viaggiano a paso d’uomo per le vie. A molti mette tranquillità, a me tutt’altro.
Non ho mai amato le divise.
È mezzogiorno. La temperatura più da agosto che da settembre.
Una ragazza esce da Tiger (negozio di cianfrusaglie geniali). Si siede su una panchina in pietra. Incrocia le gambe e apre la busta con i suoi acquisti. Negli occhiali a specchio arancioni vedo riflessa l’immagine di un quaderno a righe.
Una mail sul mio telefono mi avvisa sull’uscita dei risultati di un esame universitario che non sono andato a dare.
La ragazza continua a sfogliare il suo quaderno come si ci fosse scritto sopra qualcosa.
Mi accorgo solo ora che a due metri da me, montato sopra un palo, c’è un orologio.
Da quando sono seduto avrò guardato l’ora sul mio cellulare almeno otto volte.
Mi alzo per il caldo eccessivo e mi incammino verso casa.
Circumnavigo il vallo dell’Arena per sfruttarne l’ombra.
In mezzo alla folla vedo a due passi da me un viso conosciuto.
I miei neuroni sono lenti e non riesco ad associare un nome alla faccia.
Lei mi guarda, mi sorride e continua per la sua strada.
Ora ricordo quel sorriso. Giulia, figlia di una mia insegnante delle medie.
Ragazza simpatica. Mai più vista da allora.
La fame fa aumentare il mio passo.
Sguscio tra i branchi di turisti che tappezzano piazza Bra. Mi infilo sotto i portici.
Qui sotto c’è un barbone che emana Tavernello da tutti i pori che intona l’inno di Mameli a squarciagola ondeggiando.
Adoro questa città.
Uscendo dai portici schivo il fuoco incrociato delle fotocamere dei turisti.
Da quando vivo qui sarò stato immortalato accidentalmente da migliaia di sconosciuti.
Mi immagino la mia faccia conservata negli hard disk, salvata nei cloud o addirittura stampata, incorniciata e appesa sulle pareti delle case di sconosciuti in tutto il mondo.
Girando la chiave nella toppa del portone del palazzo in cui abito ripenso ad Giulia e al suo sorriso.
Molti quando mi incontrano fanno finta di non avermi visto.
Esattamente come spesso faccio io.
Mi capita addirittura di imboccare vicoli e stradine per evitare questi incontri.
Lei invece, con molta semplicità, mi ha sorriso.
Il motivo per cui, a volte,  non saluto le persone è che ad alcuni un semplice “ciao” non basta.
Vogliono fermarsi e iniziare un imbarazzante conversazione tra due persone che non hanno niente da dirsi.
Odio questi momenti. Se tutti fossero come Giulia sarebbe tutto più facile.
Non dovrei simulare delle chiamate improvvise per scrollarmi di dosso questi conoscenti occasionali.
Il metodo Giulia, come è stato appena rinominato da me stesso, risolverebbe molti problemi sociali.
Vedi qualcuno che conosci per strada ma con cui non vuoi iniziare una conversazione?
Semplicemente gli sorridi. 
Tu e lui sapete che entrambi vi siete riconosciuti, nessuno dei due è stato maleducato nei confronti dell’altro e la giornata può continuare serenamente.
Il metodo Giulia andrebbe insegnato nelle scuole.


Cantoni Marco

domenica 28 agosto 2016

RACCONTO: TAVOLINO


Sei appena uscito dall’ufficio.
E’ tardi, il tuo capo, ancora una volta, ti ha trattenuto un ora in più, ovviamente senza pagarti gli straordinari.
Cammini per la strada e ti senti uno zombie. Le gambe conoscono la strada e ti porteranno a casa.
Imbocchi la galleria pedonale che ti farà risparmiare qualche metro.
C’è molta gente in giro. Tutti sorridono, sono felici, o almeno lo sembrano.
Stai sudando copiosamente dentro il tuo completo da quattro soldi comprato in saldo.
La cravatta ti sta strozzando, apri il bottone del colletto e la allenti.
La testa ti scoppia.
Le voci di tutte quelle persone irrazionalmente contente ti assordano.
Passi davanti ad un bar con i tavolini esterni.
C’è un mucchio di gente. Tutti che brindano ad una salute che non potrà proteggerli da una certezza inevitabile.
Sei stanco, non fisicamente. Sei stufo di tutto questo.
Stufo delle regole, stufo dell’etichetta, stufo delle consuetudini.
Avanzi barcollando come se sule tue spalle reggessi il peso del mondo, invece sei l’ultima ruota di un carro impazzito senza conducente.
Sei un paria, un servo della gleba. Una piccola formichina a cui la società chiede solamente di fare il suo lavoro senza dargli spiegazioni.
Un ape operaia il cui scopo ultimo è essere un piccolo pezzo in un gigantesco puzzle.
Sedute ad un tavolino tondo in ferro battuto ci sono due donne.
Bionde entrambe, e circondate da un aura di sicurezza e irraggiungibilità.
Quella che ti da le spalle ha una sigaretta incastonata tra medio e anulare della mano destra.
Nonostante la donna seduta di fronte sia molto bella, la tua attenzione è completamente riversata verso la figura di schiena.
Il suo essere celata ti affascina.
Hai due alternative: tornare nel tuo monolocale e consumare, in solitaria, un pasto frugale davanti allo schermo di un computer oppure fermarti in quel bar e scoprire il viso della donna del mistero.
Trovi posto in un tavolino che ancora non ti permette di vederla in faccia.
La debole luce del lampione è l’unica illuminazione disponibile.
Le due donne stanno parlando, ma tu non le senti.
Si avvicina un cameriere chiedendoti cosa vuoi da bere.
Ci pensi qualche secondo e poi opti per un chinotto.
Una birra sarebbe stata banale, il vino lo bevi solo a pasto e non sei un amante dei superalcolici.
Lei si muove mentre parla.
Le sue spalle ondeggiano.
Spegne il mozzicone nel posacenere e si piega a prendere qualcosa nella borsa.
La luce fioca evidenzia il suo profilo.
Il naso sottile, la bocca sorgente e il mento pronunciato.
Dura un attimo e poi svanisce.
Dai vestiti che indossa deve essere benestante, forse ricca di famiglia.
Noti che l’anulare sinistro è nudo. Buon segno.
Poi d’un tratto succede qualcosa.
La sua amica si alza, la saluta e se ne va.
Lasciandola lì da sola.
Il provvidenziale evento ti sorprende, cogliendoti impreparato.
Hai un occasione, ma non carte da giocare.
Cosa puoi offrire ad una donna del genere?
Non hai mai visto il suo viso ma ti sembra quasi di conoscerla.
Infanzia agiata, scuole private, adolescenza turbolente e adesso seduta in un bar a monopolizzare l’attenzione del pubblico maschile.
Tuttavia in lei c’è qualcosa che ti intriga.
La possibilità di poter ambire ad una donna di serie a accende in te una sorta di spirito di rivalsa.
Nei confronti di chi ti ha sempre detto che non valevi niente, di chi non calcolava le tue idee, le tue ambizioni.
Nei confronti dei ragazzi che a scuola nell’ora di ginnastica ti sceglievano per ultimo.
Nei confronti di tutte quelle ragazze che non hanno mai corrisposto i tuoi sentimenti.
Quella donna simboleggia tutto questo.
Incarna nel suo metro e settantacinque, meno dieci di tacco, una vita di frustrazioni e sogni mai realizzati.
Bevi il tuo chinotto come se quella soda agrumata potesse aiutarti in qualche modo.
Prendi coraggio e ti alzi.
Circumnavighi il suo tavolino e, mentre lei si sta accendendo un'altra sigaretta, le chiedi se puoi sederti.
Lei non è sorpresa. Il suo sguardo è vuoto.
Il suo viso è esattamente come te lo eri immaginato.
Una faccia da modella.
Sei sicuro che a casa abbia foto di se stessa incorniciate e appese al muro.
Negli anni, molti ragazzi devono averci provato con lei con la scusa di confezionarle un servizio fotografico.
Ti squadra dall’alto al basso, molto lentamente.
Mentre lo fa l’angolo sinistro della sua bocca si alza in un ghigno.
Espira il fumo della prima boccata.
Si passa la lingua tra i denti.
Siete uno davanti all’altra in totale silenzio.
Sorride guardandoti e dice: “Tu non hai speranze con me.”
Si alza e se ne va.


Cantoni Marco

domenica 21 agosto 2016

RACCONTO: LA LETTERA



Cara Julie
Questa è la lettera che tu non leggerai mai.
Per il semplice fatto che non avrei mai il coraggio di inviartela.
Forse con sovraumano sforzo e colto da un impeto autolesionista potrei avere la forza di stamparla, ma non riuscirei comunque ad infilarla nella tua buca delle lettere.
Potrei inviarla per e-mail, ma la freddezza del mezzo digitale non farebbe onore neppure alle mie goffe e insignificanti parole.
Né tanto meno avrei il coraggio di reggere il tuo sguardo mentre ascolti quello che ho da dirti.
Il fatto che tu non leggerai mai queste righe mi tranquillizza.
Ma al tempo stesso la consapevolezza che non riuscirò mai a dirti quello che provo per te mi deprime.
Ho formulato, nella mai testa, questo discorso mille volte. Ma adesso che mi sono imposto di scrivere quelle parole, queste mi risultano vuote.
Si dice che per raccontare qualcosa è buona norma cominciare dall’inizio, ma sono sempre stato allergico alle convenzioni (in un modo cosi anticonvenzionale da essere al limite del banale), quindi inizierò dalle fine.
La miccia scatenante l’impulso malsano che ha causato in me un ritorno a sentimenti che ritenevo morti e sepolti è stata la tua recente rottura con Donald.
Non credo di rivelare una sorta di segreto dicendoti che io e il tuo, ormai ex, fidanzato non siamo mai andati d’amore e d’accordo, per usare un eufemismo.
Inizialmente pensavo che derivasse da una sorta di reticenza nei miei confronti da parte sua.
Tuttora però sono convinto che Donald alle mie spalle non spenda parole lusinghiere nei miei confronti.
Ma negli ultimi giorni ho riflettuto parecchio su questa questione e sono giunto ad una conclusione a posteriori molto semplice.
L’altra sera ho mentalmente stilato una lista di quelle che potremmo definire le persone per le quali nella mia vita ho provato dell’odio.
So che può sembrare una cosa infantile. E sono quasi sicuro che lo sia.
Nonostante questo i risultati sono a dir poco interessanti.
Infatti la lista, breve ma non brevissima, è composta principalmente da ragazzi.
E il 90% di questi hanno avuto, chi più chi meno, una relazione con te.
Questo può voler dire due cose: o hai pessimi gusti in fatto di ragazzi oppure il sentimento che provo  per te va ben oltre l’amicizia.
La conclusione ti potrà sorprendere, soprattutto perché noi due ci conosciamo dalla tenera età di dieci anni.
Più della metà delle nostre vite passate da amici. Con alti e bassi anche qui.
Ci sono stati periodi in cui passavamo molto tempo insieme e periodi invece dove passavamo mesi senza vederci.
Questo però me lo spiego come una sorta di rifiuto del mio subconscio ad un rapporto di amicizia che frustrava le mie emozioni celate.
Tuttavia ritengo, forse erroneamente, che il nostro rapporto di amicizia sia profondo e diverso da quello che hai con gli altri ragazzi.
Su questo ultimo fatto sono quasi sicuro di sbagliarmi, ma l’illusione di essere il posizione privilegiata rispetto agli altri amici è proprio il fermo che mi impedisce di dirti queste cose.
Non tanto la paura di rovinare questo rapporto o il terrore di non poterti più rivedere, ma soprattutto l’idea di essermi sbagliato per tutti questi anni.
Il mio incubo peggiore è venire a conoscenza del fatto di essere uno tra tanti.
Di non aver nessuna precedenza e di essere ai tuoi occhi, poco più che un conoscente.
In tutti questi anni dentro di me credo di aver sempre saputo cosa provavo per te, ma come meccanismo di autodifesa ho sempre mascherato questo sentimento in una sincera amicizia.
Si, perché nonostante tutto tu per me sei una grande amica, la mia migliore amica.
Allo stesso tempo sei l’unica donna che abbia mai amato veramente.
Non credo di essere in grado di spiegarti i sentimenti che provo per te, se non per sottrazione.
Proprio per questo l’unica cosa che riesco ad esprimerti è che non sono in grado di immaginarmi a fianco di nessun altra donna che non sia tu.
Non credo che ci sia bisogno di salutarti al termine di questa lettera, perché come dicevo prima non la leggerai mai, ma per cullarmi ancora un po’ in questa mia fantasia lo farò lo stesso
Quindi termino qui questa sequela di frasi senza lettore.
Con molta probabilità questo file di testo marcirà silenzioso nel backup del mio computer e forse tra qualche anno rileggerò queste mie parole e le troverò ridicole.
L’unica cosa che spero è di non pensarle più, così da vivere la mia vita con utopica serenità, cosa che in questo momento non posso fare.

Ti abbraccio
Tuo (e di nessun altra) Philip

Cantoni Marco

sabato 30 luglio 2016

RACCONTO: ANALISTA


Cassettoni. Un soffitto a cassettoni.
Il soffitto dello studio della dottoressa Magnusson.
Sono sdraiato sul proverbiale divanetto in pelle testa di moro.
È comodo. Molto più comodo del divano che troneggia nel salotto del mio appartamento.
Sto sudando. La camicia ormai è un tutt’uno con la giacca.
Avrei dovuto accettare l’invito della dottoressa di togliermela e riporla sull’appendiabiti.
Solitamente mi siedo sulla poltroncina di velluto rosso, quella posizionata proprio di fronte alla sedia della dottoressa, dalla quale riesco a vedere perfettamente le sue espressioni facciali e qualche volta riesco addirittura a sbirciare qualche suo appunto.
Oggi però voglio meno contatto visivo possibile, per questo il divanetto mi sembrava l’ideale.
Non ne sono più così sicuro.
Non sono a mio agio e ovviamente lei se né accorta.
Proprio quello che non volevo.
La saliva scarseggia, così come il coraggio dei miei pensieri.
Entrando mi ha chiesto come stavo, come se fosse una domanda dalla facile risposta.
Anche oggi me ne andrò senza averglielo detto.
Come sempre non troverò il momento giusto. 
Come se esistesse il momento giusto per dire alla vostra analista che vi siete innamorati di lei.
Mi chiede di raccontarle la mia settimana e, mentre parlo della mai vita vuota e senza significato, l’unica cosa a cui riesco a pensare è a quanto mi piacerebbe che fosse lei a parlarmi della sua, di settimana.
La scelta del divanetto tuttavia mi preclude la vista delle sue gambe.
Non posso vedere quando, deliziosamente, si morde il labbro superiore mentre le racconto dell’odio che provo per il mio lavoro.
L’unica vista possibile è il soffitto a cassettoni.
Non lo avevo mai notato. Ora che faccio attenzione non mi ero mai nemmeno reso conto che il suo studio ha dei soffitti veramente alti. Saranno almeno 4 metri. Forse è la prospettiva del divanetto a ingannarmi. Forse sdraiato sui miei problemi il mondo esterno (compreso il soffitto) mi sembra così grande e invincibile.
Ho finito di elencarle le poche cose fatte negli ultimi sette giorni.
Ora siamo in silenzio. Adoro questi momenti.
Sembra che non esistano. Sembra che la sua laurea in psicologia le dia il potere di fermare il tempo.
Non la vedo ma nella mia testa riesco ad immaginarmela mentre con la mano destra si sfila gli occhiali neri e, mentre pensa alla prossima domanda da farmi, mordicchia la stanghetta già consumata da quel tic nervoso.
Mi chiede se c’è qualcosa che mi preoccupa.
Potrebbe essere il mio momento. Se non ora quando.
Le dico che ultimamente fatico a venire alle sedute. Tento di stare sul vago.
Alla sua richiesta di spiegazioni le confesso il mio tranfert.
Mentre parlo mi rendo conto di essere un cliché. Sarei stato meno banale solo se da ragazzino mi fossi innamorato della professoressa di matematica.
Mi vergogno. Non posso crede di essermi ridotto così in basso.
Sono sul punto di alzarmi e andarmene. Ho paura a girarmi.
Non voglio vedere la sua reazione. Non voglio neanche sentirla.
Come un bambino mi tappo le orecchie con le mani.
Visto dall’esterno devo essere uno spettacolo a dir poco ridicolo.
Un trentenne sdraiato sul lettino del terapeuta con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie.
Un uomo finito. Un perdente senza speranze impreparato ad assistere al suo ennesimo fallimento.
Rivivo in un attimo tutte le occasioni mancate della mia esistenza.
Tutti i miei rimpianti allineati, lì vedo chiaramente.
L’unica consolazione è che questo non potrà rimpolpare quella schiera. Nel bene o nel male questa volta ho fatto la mia scelta. Mi sono esposto.
È soprattutto merito suo se sono riuscito a trovare il coraggio per fare una cosa del genere.
Forse questo è addirittura lo scopo finale della mia terapia.
Anche se dovesse rifiutarmi, so di essere cresciuto. Ho superato uno scoglio.
Ora sono un uomo diverso.
Ad un certo punto la sento avvicinarmisi.
Mi toglie le mani dalle orecchie.
Apro gli occhi, è davanti a me. Si slega i capelli e mi bacia.
Con un unico gesto ha cambiato la mia vita.
Ha permesso ad un umile bruco di diventare finalmente farfalla.
Mi ha salvato. Solo lei poteva.
La felicità mi pervade. Non sono abituato, potrei farci l’abitudine però.

Mi sveglio. Sono tutto sudato nel mio letto.
Oggi non le ho detto niente, come al solito.

La vita fa schifo, come al solito.


Cantoni Marco

venerdì 22 luglio 2016

RACCONTO: LETTO CALDO


Lenzuola umide. Caldo tropicale.
Corpi sudati  distesi sul materasso.
La guardo con la testa appoggiata di lato sul cuscino.
Lei è nuda, come del resto lo sono anch’io.
I capelli arruffati hanno perso la piega e dolcemente ricoprono le sue spalle dorate.
La pelle è lucida, preziosa. Gli occhi chiusi, per farsi ammirare.
Le passo il dorso della mano destra sulla guancia appannata.
Lentamente le palpebre si schiudono, liberando due gemme preziose.
Sbatte le ciglia come se veramente l’avessi svegliata. Mi guarda e un brivido mi attraversa la schiena.
Solleva la testa con il braccio destro e non dice una parola. Il silenzio che ci avvolge mi ronza nelle orecchie.
-Perché mi guardi? – mi chiede sapendo già la risposta.
-Perché no? –tento inutilmente di sorprenderla.
La sicurezza nei suoi occhi mi mette in crisi. Mi mette in una situazione a me nuova.
Lei sembra sempre a suo agio, soprattutto quando non lo è.
Si gira a pancia in giù. Liberando le curve perfette del suo corpo scolpito.
Non ho mai visto una donna del genere.
-Sei bellissima – non riuscendo a dire niente di meno banale.
Lei mi si avvicina, appoggia le sue labbra al mio orecchio e ci sussurra dentro:
-Dimmi qualcosa che non so.
Bellezza e consapevolezza le armi più potenti nella nostra società.
Per lei niente e nessuno è irraggiungibile. Nessun ostacolo troppo grande.
Tra i tanti ha scelto me. Perché? Ancora me lo chiedo.
La domanda mi assilla, consumandomi nel profondo.
Non ho soldi, non ho potere, non ho niente.
Non sono particolarmente bello, né ho talenti fuori dall’ordinario.
Sono un middle man. Anzi sono la quinta essenza dell’uomo medio.
Se alle Olimpiadi dovesse gareggiare la squadra dei middle men, io sarei senza ombra di dubbio il porta bandiera.
Forse è uno scherzo. Forse ha sbagliato persona. Forse è tutto un equivoco.
Non so come sia possibile, ma fortunatamente il mio pessimismo mi rende immune alle cattive sorprese, al costo di non sapermi godere quelle buone.
La guardo negli occhi cercando risposte. Niente.
Lei mi sorride, sembra felice. Anzi annoiata.
Allunga il braccio sinistro e afferra sul comodino un pacchetto di Davidoff.
Se ne infila una tra le labbra e la accende.
Proprio in questo momento mi ricordo che siamo nella sua camera di albergo.
Non me lo ricordavo. Ieri sera ho esagerato con il bere.
Espira grandi boccate di fumo.
Il fumo che si mischia all’umidità dell’aria, dovuta al caldo di un agosto da record, crea una ambiente quasi esotico.
Le pareti si allontanano e i contorni sbiadiscono.
Torno ad ammirare il suo corpo adagiato con sicurezza disarmante.
Sono felice. Conosco questa donna da poche ore, e a dire il vero in questo momento mi sfugge il suo nome, ma non mi importa.
Per la prima volta nella mia vita mi sento libero.
Senza costrizioni. Senza regole. Senza impegni.
Nessuno mi dice cosa devo fare. Nessuno programma la mia vita.
Siamo io e lei in un letto e niente, tranne il fumo, intorno a noi.
La sigaretta è a metà. La cenere cade sulle lenzuola di seta.
Cerco di ricordare cosa ci siamo detti la sera prima.
Come ho fatto ha convincerla a farmi entrare nella sua camera?
Niente. I ricordi sono confusi. Pochi flash non ben ordinati.
Strano che il gin mi abbia fatti questo effetto. Non sono un novellino in quel campo.
La testa mi scoppia.
Questo mi ricorda quando da giovane mi svegliavo dopo una serata con gli amici.
L’alcol, la musica e qualche droga. Non che ne abbia fatto grande uso.
Saranno anni che non mi faccio una canna.
La sigaretta è finita. Si piega verso il comodino, dove spegne il mozzicone nel portacenere di cristallo.
Si gira verso di me e continua a sorridere. Ha un sorriso contagioso.
Credo di non essere mai stato così felice in vita mia.
-Sai a me piace sempre fumarmi una sigaretta prima di farlo- mi dice.
-Pensavo lo avessimo fatto stanotte – rispondo perplesso.
Sorride: -Infatti non mi riferisco al sesso.

Alza il suo cuscino e l’ultima cosa che vedo è la canna di una pistola.

Cantoni Marco

sabato 25 giugno 2016

INCIPIT ?


Un sapore metallico in bocca. Ferroso, calcareo, forse ruggine.
La salivazione inesistente si mischia alla paura di parlare.
Secca è la lingua incastrata in bocca. Ruvida e pigra nel momento del bisogno.
I pensieri si accavallano, sovrapposti l’un l’altro come tasti di una macchina da scrivere. 
Confusi nella testa si trasmettono nervosi nella bocca.
Niente, non esce nulla.
Deglutendo platealmente inghiottisco saliva sperando porti via con sé la paura.
Utopia.
Inspiro nasalmente più ossigeno che posso, sperando che nasconda tra le molecole elettroni di coraggio.
Sbatto le palpebre, la retina non mette bene a fuoco. Di fronte a me figure sbiadite. Negativi di una realtà inverosimile.
Passano minuti in un probabile universo parallelo, solo pochi secondi in quello che convenzionalmente accettiamo come reale.
Il palco sul quale sto copiosamente sudando non è più grande di qualche metro.
Il premio tra le mie mani troppo importante per essere spiegato.
In platea scorgo personalità illustri, politici e soprattutto colleghi.
È ancora tempo di ansia.
Con unghie troppo lunghe mi provoco micro-ferite sul polpastrello del pollice destro.
Sento poche gocce di sangue fuoriuscire dalla piccola ferita, con quello ho una certa familiarità.
Mi passo il pollice sulle labbra, il sapore del mio sangue migliora quello della saliva.
Appoggio la statuetta sul leggio.
Il rumore di fondo mi avvolge claustrofobicamente. 
Non riesco neanche a pensare. Forse soltanto a pensare di non pensare. Forse neppure a quello.
Nell’aria respiro invidia e rancore. Solitamente me ne cibo, ma adesso ho lo stomaco chiuso.
Sorrisi finti e strette di mano cariche di odio hanno preceduto quei tre gradini alienanti che dividono loro da me.
Non credo sia vero che fiutano la paura come dicono. 
In questo momento sono terrorizzato, ma nessuno se né accorto.
Alzo lo sguardo simulando convinzione. Nonostante le pessime doti attoriali il tentativo funziona. La convinzione altrui me ne regala un briciolo anche a me. Faccio tesoro di questo, massimizzo quel briciolo e mi cullo di ottimismo.
Mi passano negli occhi apparizioni di persone che non ci sono più. 
Persone che conosco. Persone che mi perseguitano. Persone.
Ho fatto loro del male. Per quanto mi riguarda niente di personale, a quanto pare non per loro.
Fingo con me stesso che non siano un problema, spesso mi convinco.
Pronto alla battaglia mi schiarisco la voce. Ricercando nella mia memoria meccanica i momenti passati giorni prima a immaginare di pronunciare quelle parole.
Parole studiate a tavolino, calibrate per sembrare spontanee. Concetti semplici e rassicuranti. Pensieri di massa carichi di finta umiltà.
Un discorso figlio del sistema, che non mira a metterlo in crisi ma soltanto a rafforzarlo, a sfruttarlo per beneficiarne.
Ovviamente il panico non aiuta, ma le parole sono scolpite nella mia mente, devo soltanto tirarle fuori nell’ordine giusto.
È finito il tempo dei dubbi. E’ finito il tempo della paura.
Sono pronto a godermi la gloria, cercando inutilmente di dimenticare quanto è costata.


Cantoni Marco

lunedì 28 marzo 2016

RACCONTO: TUM-TUM


Tum-tum    tum-tum   tum-tum
Le piccole gocce di condensa ricoprivano quasi completamente il vetro della finestra.
Il mondo esterno era celato ai suoi occhi. Un privilegio, quello di godersi il panorama, che qualche arcana forza della natura gli stava negando con una leggerezza quasi sadica.
Oppure era proprio il suo umore a creare delle simili paranoie.
Muovendosi come un leone in gabbia, copriva palmo a palmo i pochi metri quadrati in cui era rinchiuso. 
Non era claustrofobico. Non ancora almeno. 
Tuttavia quella condizione esistenziale iniziava ad amplificare il suo maldivivere come un megafono emozionale.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
La stanza era spoglia, triste e asettica nel suo sforzarsi di non esserlo. Alle pareti erano appese delle stampe incorniciate di famose opere d’arte.
Dei tristissimi girasoli di Van Gogh stampati su carta porosa che falsava completamente la resa cromatica. Circondati da una cornice in materiale plastico di color grigio topo.
Era schifato e allo stesso tempo attratto da quel abominio. 
Il suo sguardo stanco ma mai domo ciclicamente si posava su quel vaso di fiori. 
Non aveva mai avuto una passione particolare per l’arte. Né poteva vantare una conoscenza accademica particolarmente approfondita. E sicuramente in un'altra situazione non avrebbe mai fatto caso a quella stampa. 
Ma la vita ci mette di fronte a situazioni inaspettate ed è proprio per questo quel pomeriggio si trovava in quella sala d’attesa.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
La solitudine di quel luogo per lui era quasi un sollievo. 
L’eventuale presenza di altre persone in quel preciso momento e luogo, avrebbero raddoppiato la sua ansia crescente.
L’ansia era una sua prerogativa. Un fenotipo dominante che lo caratterizzava da sempre. L’ansia per lui era più un attitudine di vita, piuttosto che un fenomeno sporadico.
Un atteggiamento che con gli anni ti fai amico e con cui, a malincuore, impari a convivere. Come coinquilino però è molto fastidiosa. La devi conoscere. Ti ci vuole tempo per imparare i suoi ritmi. Devi studiarne gli orari e le abitudini preferite. Su alcune cose devi essere duro e intransigente, su altre invece devi scendere a patti e imparare a fartele piacere. I primi tempi vorresti cacciarla dalla tua vita e non vederla mai più, ma è l’atteggiamento sbagliato. Non devi prenderla di punta. Se la sfidi su quel campo, vincerà sempre lei. Devi essere più sottile, anche un po’ ruffiano. Devi corteggiarla, capire le sue ragioni e metterti nei suoi panni. A quel punto, quando senti di averla domata, puoi permetterti anche di accantonarla per brevi lassi di tempo. Se sei bravo lei ti lascerà i tuoi spazi ma non devi mai fargli credere che la stai battendo, deve essere lei che ti cede il posto. Questa pratica di amore-odio con l’ansia lui l’aveva capita bene. Era diventato un maestro ormai.
Ma nei momenti di debolezza, quando la vita di prende in maniera inaspettata alle spalle, l’ansia prevale sempre.
Quando le tue difese sono calate lei attacca.
Non per cattiveria nei tuoi confronti, ma perché è la sua natura.
Tum-tum   tum-tum    tum-tum
Coff coff
Con un colpo di tosse ricacciava in gola un rigetto di bile che dallo stomaco cercava di risalire in superficie. Come uno scalatore, che con tutte le forze rimaste,  vedendo già la cima del monte, si da lo slancio per completare il suo obiettivo.
Peccato che la vita è dura per tutti e lo è anche per quello scalatore gastrico che non riuscirà mai a godersi l’ambito panorama.
La situazione che lo costringeva tra quelle quattro pareti ocra gli era piombata addosso in modo inaspettato e doloroso.
Uno schiaffo in piena faccia che lo aveva svegliato da una esistenza onirica, non condizionata dalla presenza di altri esseri umani.
La sua sociopatia e conseguente eccentricità involontaria lo rendeva repellente agli altri più di quanto questi lo fossero nei suoi confronti.
Questo discorso però non valeva per Giulia.
Unica breccia in quella cortina di malessere con la quale si isolava dagli altri.
Una figura quasi mitologica e sicuramente unica nel suo genere che riusciva a scuoterlo e a renderlo una persona migliore.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
Il rumore costante delle pulsazioni cardiache era sempre più assordante. Capiva solo ora il motivo per cui il cuore aveva, nella nostra società, acquisito una dimensione metafisica e simbolica così elevata.
Riusciva per la prima volta a vederne il fascino.
Anzi a sentirlo, con le sue orecchie.
Un suono dolce e tremendo allo stesso tempo. Un ossimoro sonore che regolava la vita e la morte.
Ogni tum in più era un tum in meno.
Il cuore ha un numero finito di tum.
La vita umana ha un numero finito di tum.
Il tum è l’unità di misura della vita. Infatti sarebbe più sensato usare il tum per misurare il tempo.
Un clock di sistema che per lui diventava sempre di più un countdown.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
Se da un lato non riusciva a sopportare quel rumore ossessivo, dall’altro sperava non smettesse mai di risuonare.
Un po’ come la vita della quale tutti noi ci lamentiamo, ma che ovviamente non vorremmo finisse mai.
Pensando a questo si ripeteva in testa la famosa storiella di Groucho Marx utilizzata da Woody Allen nel prologo di “Io e Annie”.
“Due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena”, e l’altra: “Si, è uno schifo, ma poi che porzioni piccole!””.
In questa condizione psicologica che definire fragile era un eufemismo, si trovava ad aspettare in silenzio l’esito del calvario di Giulia.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
Ripensando alle ultime parole che le aveva rivolto, non trovava pace.
Una normale litigata, o forse l’apice di una relazione tra due opposti che nonostante e forse grazie a quelle liti si autoalimentava in una convivenza di 5 anni.
Ma alla luce di quello che era successo, le sue parole diventavano pesanti come macigni.
Le parole hanno quest’effetto. Il contesto ma soprattutto gli eventi le trasformano definitivamente in qualcosa di non preventivato ma tuttavia dannatamente reale.
Giocherellando con il bicchierino vuoto del tè al limone che aveva bevuto qualche minuto prima, pronunciava tra sé e sé il climax di quel invettiva con la quale aveva lasciato muta sul divano l’unica persona che aveva detto di amarlo.
Parole vuote. Parole inutili, come se ne dicono tante. Parole volatili e superficiali che probabilmente Giulia si era dimenticata l’attimo dopo averle ascoltate, ma che per lui erano una spada di Damocle.
La telefonata che gli era arrivata due ore prima, mentre era al lavoro, lo aveva fatto sprofondare in un abisso emotivo da quale non era ancora riuscito a risalire.
Eppure non poteva assumersi la responsabilità del colpo di sonno di un camionista negligente. Né della crepa termica della barriera protettiva che aveva agevolato l’urto tra il tir e la cinquecento di Giulia.
Nonostante ciò, per lui, questo era la punizione finale di una vita di nichilismo e egocentrismo.
La possibilità di perderla e la paura che questo comportava lo atterrivano.
Ma più di tutte queste cose lo terrorizzava il fatto che era da qualche minuto che non sentiva più il suono che prima riempiva quelle stanze.
Il mantra religioso al quale per la prima volta nella sua vita di ateo si appellava.
Una sensazione di vertigine lo avvolgeva e lo stritolava.
Sentiva dei passi nel corridoio. Ma non voleva conoscere la persona che calcava quelle scarpe, dal rumore troppo leggera per essere il medico che aveva intravisto un’ora prima.
Infatti quella che si sporgeva con la testa dalla porta era una donna.
Ma non la donna che avrebbe voluto vedere.
Non la sua donna.
Negli occhi aveva una tristezza sincera e reale.
La sentenza finale era l’ultimo atto del suo dramma interiore.
Giù il sipario.


Cantoni Marco